L’artista Valentina Vetturi racconta la sua opera Alzheimer Café, Trivero realizzata per il progetto ALL’APERTO di Fondazione Zegna: una composizione sonora presentata nel giardino di Casa Zegna in occasione delle Giornate FAI di Primavera, sabato 25 e domenica 26 marzo 2017.
Barbara Casavecchia: Perché Alzheimer Café ha questo titolo e perché hai iniziato a lavorare attorno a questi temi?
Valentina Vetturi: Mi interessa l’esperienza del dimenticare. Se siamo ciò che ricordiamo, cosa resta di noi quando diventa difficile, se non impossibile, richiamare alla propria mente anche il proprio nome?
BC: Alzheimer Café è una serie di opere. Da quanto tempo lavori a questo ciclo?
VV: Ricordo di aver inviato a un curatore, nel 2012, un documento dal titolo “Alzheimer Café”. Ma se dovessi definire il momento d’inizio, direi che è antecedente e senza data. Una donna, seduta a un tavolo, mastica un pezzo di carne per un tempo indefinito. Lo dimentica. Il pezzo di carne cambia ripetutamente forma e non si sa se la donna sarà mai capace di deglutire quel bolo. Tra questa immagine e il 2014, anno in cui ho ricevuto due differenti inviti a produrre il lavoro, Alzheimer Café ha trovato una possibile risposta alla domanda: cosa resta quando si dimentica tutto? Ricordi musicali, frammenti di canzoni, motivetti. Alzheimer Café è dedicato a questi ricordi, gli ultimi che incredibilmente resistono nella nostra mente alla degenerazione neurologica causata dalla malattia. E sono questi ricordi cantati da persone affette dal morbo di Alzheimer ad aver generato le prime opere del ciclo.
BC: Come raccogli i materiali e come li rielabori?
VV: Pur partendo dalla realtà, il mio non è un lavoro di documentazione. Frequento centri che lavorano con malati di Alzheimer, partecipo alle attività che quotidianamente coinvolgono gli ospiti, così da permettere loro di abituarsi alla mia presenza e viceversa. Poi registro le loro voci mentre cantano: la rielaborazione avviene in una fase successiva, in studio. Provo qui a riassumere un processo complesso e lento. Collaboro con un ingegnere del suono, Roberto Matarrese, insieme al quale procedo così: ascolto, catalogazione, ascolto, selezione, ascolto, composizione… Sono le immagini suggerite da quelle voci anonime, con le loro sonorità e timbri, e dai loro canti a guidare la costruzione della partitura sonora. Ogni tappa di Alzheimer Café, al di là delle forme diverse che assume, è concepita come uno spazio pubblico dove si incontrano ricordi privati.
BC: In quali modi hai presentato Alzheimer Café sinora?
VV: Alzheimer Café I (2014) è una scultura permanente realizzata per il programma di arte pubblica della Kunsthalle di Goeppingen, in Germania. Ha la forma di una piramide rossa, con all’interno, sul pavimento, due botole: se aperte, vi si trovano due carillon che suonano ricordi musicali. Alzheimer Café II (2014-15) è una performance che fa parte della collezione del Museo MAXXI di Roma, dove l’ho presentata nell’ambito della mostra Open Museum Open City, curata da Hou Hanru: uno spazio di ascolto futuribile, una nuvola sonora in cui preservare i nostri ricordi prima che svaniscano. A novembre 2016, poi, sono stata ospite dell’Istituto di Cultura Italiana di Stoccolma, su invito della curatrice Valentina Sansone, e stiamo lavorando per realizzare una nuova tappa del ciclo, che nel mio periodo di residenza in città ha coinvolto diverse istituzioni locali: Ersta, il centro specializzato nel trattamento e la cura delle malattie neurologiche degenerative a Stoccolma; Elektronmusikstudion (EMS), il centro per l’elettroacustica e la sound art in Svezia; AgeCap – Centre for Ageing and Health e l’Università di Göteborg.
BC: A Trivero dove hai lavorato?
VV: Grazie alla mediazione di voi curatori, ho collaborato con il Centro Diurno Alzheimer “Antonio Barioglio” e la Casa di Riposo “Sella Borsetti Facenda” a Mosso. Se le mie sessioni di registrazione sono state prolifiche, lo devo alla disponibilità della direttrice dei centri Chiara Craviolo, di tutto il personale specializzato – le psicologhe, le assistenti sociali, le infermiere – e soprattutto delle ospiti, che hanno voluto cantare.
BC: Quante e quali voci hai raccolto? E quali canti?
VV: Ho incontrato dapprima le voci delle donne e dei – pochi – uomini ospiti nel centro diurno a Trivero, dove c’è un gruppo composto da una quindicina di persone che nel corso della settimana si alterna e trascorre le giornate impegnato in attività eterogenee. In seguito, ho incontrato un altro gruppo, composto da una ventina di ospiti della casa di cura di Mosso, che sono in uno stadio più avanzato della malattia. I canti qui a Trivero sono tutti riconducibili alla tradizione della musica leggera e spaziano dagli anni ’20 /’30 agli anni ’70. Cito alcune hit: Piemontesina bella, Il fazzolettino, L’ambasciatore, Romagna mia…
BC: Come hai scelto di installare il tuo lavoro, in questo caso, e perché?
VV: Il lavoro è installato all’aperto, nel giardino di Casa Zegna. Dal punto di vista sonoro è costruito in quadrifonia, ho voluto assecondare una caratteristica intrinseca alle registrazioni dei cori. Le quattro casse delimitano i punti estremi di un quadrato, uno spazio al cui interno è possibile ascoltare una raccolta di brevi brani, componimenti dalla durata eterogenea che si alternano al silenzio.
BC: È la prima volta che ti trovi a utilizzare dei cori, anziché voci singole?
VV: Qui a Trivero ho deciso, già in fase di registrazione, che i cori sarebbero stati l’elemento dominante, la guida per costruire la partitura sonora. Questo è sicuramente un elemento di novità rispetto alle precedenti tappe. Tuttavia, le sessioni di canto in gruppo sono un’attività tipica dei centri diurni e delle case di cura, e ci sono momenti corali anche in Alzheimer Café I e II.
BC: Pensi che Alzheimer Café funzioni anche come “mappatura” geografica e storica? Le filastrocche dell’infanzia, le canzoni della gioventù sono spesso molto legate a un luogo, tempo e clima preciso, oppure a un’identità culturale.
VV: Mi piace pensare che un’opera possa avere possibilità di lettura molteplici che esulano la volontà dell’autrice o dell’autore. Questo è forse uno di quei casi: non è nelle mie intenzioni che Alzheimer Café funzioni anche come una mappatura geografica e storica. I frammenti, i canti, le filastrocche sono inevitabilmente connessi alla cultura di provenienza e a uno specifico arco temporale: i pazienti in genere ricordano canzoni della loro giovinezza e qui a Trivero questo è stato particolarmente evidente. Tuttavia in altri centri, a Roma per esempio, ho incontrato persone di quarant’anni che cantavano i Beatles accanto a persone di settanta che cantavano Modugno, così come in Germania e a Stoccolma ho incontrato persone di nazionalità diverse. Alzheimer Café per me vive in una prospettiva quasi inversa a quella che suggerisci: al di là di ogni cultura di provenienza, c’è una sorprendente poetica persistenza della musica alla perdita della memoria.
BC: Come ti misuri con l’aspetto doloroso legato alla perdita di una parte di sé, che inevitabilmente porta con sé anche la scomparsa di ricordi condivisi, e quindi di tante altre storie individuali, all’interno di una famiglia o di un gruppo?
VV: I ricordi condivisi, le storie individuali forse non scompaiono, piuttosto si trasformano nel passaggio tra generazioni. Alzheimer Café preserva alcuni di questi ricordi. Credo anche che la perdita, l’assenza, nonostante l’aspetto doloroso, sia parte integrante della vita e le dia senso, per questo la racconto.
BC: Da parte tua c’è anche una riflessione sulla relazione che lega la nostra capacità di ricordare con le nuove tecnologie, alle quali affidiamo con frequenza sempre maggiore il compito di immagazzinare i nostri ricordi?
VV: Il rapporto con le nuove tecnologie è imprescindibile quando si parla di memoria oggi. È un tema complesso e ricco di dicotomie. La nostra possibilità di immagazzinare dati è incredibile, tanto utile quanto spaventosa. Deleghiamo alla tecnologia il compito di ricordare in nostra vece, forse a discapito dell’esercizio della nostra memoria. La tecnologia si ricorda di noi, anche quando non vogliamo o prestiamo poca attenzione. E allo stesso diventa difficile dimenticare, perché tutto viene registrato.
Dal 2015, sto lavorando anche a un altro ciclo di opere, dedicato alla cultura hacker. La terza tappa, A Better Chance to Gain Enough Entropy (Un’occasione migliore per far crescere entropia, che ho presentato alla Galleria Nazionale di Roma, in occasione della 16a Quadriennale, su invito di Matteo Lucchetti) si concentra sulla rivoluzione digitale. Ho chiamato un coro a interpretare, in forma di performance, dei testi di mia composizione che parlano di anonimato, trasparenza, di memoria digitale. E in un frammento la memoria digitale viene definita assoluta. Alzheimer Café, ecco, ci potrebbe anche ricordare l’importanza di dimenticare.